Riconoscimento facciale: la fine dell’anonimato?

Riconoscimento facciale: neessuna paura per l’avvenire, che è un’opportunità e non una minaccia. 

di Roberto Reale

Stanno arrivando.
Che cosa? Le tecnologie di riconoscimento facciale. Sarà la fine dell’anonimato?

Investimenti massicci negli ultimi anni che implicano ovviamente una ricaduta civile.

Ne parla Dylan Curran sul numero di ieri di The Guardian (leggi qui).


Quali sono i pro? Ottimizzazione di alcuni processi (controllo dei documenti in aeroporto, etc). Aumento della sicurezza negli spazi pubblici. Maggiore trasparenza nelle scuole e sui luoghi di lavoro.

I contro? Molti, purtroppo. La schedatura automatica e generalizzata, con abusi di potere che sono sempre dietro l’angolo e con la difficoltà crescente di certificare bontà e trasparenza dell’algoritmo.

E’ la fine dell’anonimato?

Io personalmente, per non sapere né leggere né scrivere, sono andato a rileggermi The Age of Surveillance Capitalism di Shoshana Zuboff (surplus comportamentale, data science, infrastruttura hardware e potenza di calcolo, algoritmi e piattaforme digitali: gli ingredienti ci sono tutti).

Anzi, sono andato pure a rispolverare il buon vecchio Foucault, Surveiller et punir, che contiene la più lucida esposizione del panottismo: cioè del fatto che, per esercitarsi, il potere dello Stato deve darsi lo strumento di una sorveglianza permanente, esaustiva, onnipresente, capace di rendere tutto visibile, ma a condizione di rendere se stessa invisibile. Essa deve essere come uno sguardo senza volto che trasforma tutto il corpo sociale in un campo di percezione: migliaia di occhi appostati ovunque, attenzioni mobili e sempre all’erta, una lunga rete gerarchizzata.


Ma ne abbiamo veramente bisogno del riconoscimento facciale?


Se vogliamo vedere come sarà il futuro, andiamo in Cina, dove 200 milioni di telecamere di sorveglianza avvolgono il Paese in una rete invisibile e fanno di tutto, dal tracciamento degli acquisti nei negozi alla prevenzione del crimine violento. Col risultato, scrive Curran, che ogni cittadino cinese si ritrova schedato in un enorme database di volti.

Certo, l’Europa non è la Cina. Un approccio che abbia così in spregio la protezione dello spazio privato, della privacy, non ci appartiene. Ma serve disegnare strategie comuni, nella tradizione del diritto europeo, che tengano saldamente l’umano al centro.

Ricordiamoci che, per esempio, il GDPR non regola l’uso delle tecniche di riconoscimento facciale usato per finalità di sicurezza, polizia o persecuzione dei reati.

In conclusione, nessuna paura per l’avvenire, che è un’opportunità e non una minaccia. Lo sguardo critico va però mantenuto sempre vigile e più affilato possibile.


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