Crolla il petrolio, ma la colpa non è (solo) del coronavirus.

Coronavirus e crollo del petrolio. Vi è una diretta correlazione?

di Claudia Respano

L’emergenza covid-19 ha letteralmente congelato l’economia globale, procedendo a spada tratta senza guardare in faccia a nessuno.

Eppure, delle volte è necessario non ricadere nelle solite ipersemplificazioni ed evitare di imbatterci in conclusioni affrettate.

Diversi quotidiani e siti di informazione si sono limitati a collegare la crisi petrolifera attuale all’emergenza sanitaria legata al coronavirus. 

In questi giorni, il petrolio si trova a commerciare a meno di 30 dollari al barile (più precisamente a 27$ circa nella giornata di oggi 18 marzo) – clicca qui per le quotazioni in tempo reale – , ma solo una piccola parte di questo risultato dipende strettamente dal virus. 

Infatti, se da una parte il blocco delle attività in Cina ( e successivamente quello dell’emisfero occidentale) ha reso superflua la domanda di petrolio per via del drastico calo dei consumi di energia, dall’altra i fattori da prendere in considerazione sono soprattutto di natura geopolitica.



Coronavirus e crollo del petrolio: ricostruzione storica


Iniziamo facendo un piccolo passo indietro: nel 2011 la Russia ha iniziato la costruzione del gasdotto Nord Stream 2 per portare il gas in Europa.

Nonostante i miliardi investiti, i lavori sono stati letteralmente bloccati lo scorso dicembre a causa delle pesanti sanzioni imposte alla Russia da parte degli USA.

Il motivo può essere facilmente intuibile: se l’EU avesse iniziato ad approvvigionarsi dalla Russia, gli USA non sarebbero più stati la first choice del Vecchio Continente e, di conseguenza, avrebbero perso terreno importate non solo in termini economici, ma anche sul versante politico.

Ecco dunque che il progetto della Russia entra in standby.

Tornando velocemente al presente 2020, dopo essersi diffusa la notizia del covid-19 in Cina la domanda di petrolio è crollata rapidamente e l’asticella del prezzo è scesa da 60$ a 50$ al barile.

Ma per arrivare ai 30$ attuali, la strada è ancora lunga. 

Infatti, di mezzo c’è la riunione dell’OPEC in cui i principali Paesi produttori di petrolio hanno proposto di effettuare un taglio della produzione per riportare il prezzo del greggio a livelli sostenibili (ovviamente meno barili si producono e più aumenta il loro valore).

Ma la richiesta non è stata accolta dal Cremlino, il quale si è opposto con un secco NO.

Il motivo? principalmente la sua è stata una risposta “a tono” alle precedenti sanzioni USA.

Infatti, qualora la produzione non venisse tagliata, a pagarne maggiormente le conseguenze sarebbero proprio gli Stati Uniti, per i quali il prezzo di estrazione di shale oil risulta nettamente al di sopra di quello delle controparti. 

Qualora il prezzo restasse così basso a lungo, sarebbero circa la metà delle aziende in USA a rischiare di andare in rosso (o fallire).

petrolio

Il ruolo dell’Arabia Saudita


Ed ecco, dunque, che arriva la risposta dell’Arabia Saudita: contro il tentato ostruzionismo della Russia, il colosso petrolifero ha predisposto l’aumento della produzione da 9,7 a 10 milioni di barili al giorno, provocando un ulteriore crollo del prezzo a 30$ al barile – livelli che non si toccavano dalla Guerra del Golfo!

Stando a una prima lettura, sembrerebbe che l’Arabia Saudita potrebbe beneficiare di questa situazione, dato che detiene prezzi di produzione ed estrazione più bassi rispetto a Russia e USA.

Eppure, nel lungo periodo non sembra affatto una scelta sostenibile per un paese la cui economia è estremamente dipendente dall’attività petrolifera.

Ricapitolando: pare che la tensione non faccia bene a nessuno, sopratutto se ad inasprire la pillola “sullo sfondo” c’è una situazione di emergenza sanitaria internazionale che rischia di tenere il mondo freezzato ancora per diversi mesi a seguire.

Una cosa è certa, ovvero che la guerra del petrolio avrà tante più ripercussioni negative tanto più a lungo il prezzo rimarrà così basso: stando alle stime, questa situazione potrebbe portare a un ribasso dei ricavi generale compreso tra il 50% e l’85%, arrivando a toccare i livelli più bassi negli ultimi 20 anni.


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