Il giudizio probabilistico alla base dell’informativa antimafia e la regola del “più probabile che non”: commento alla sentenza del Consiglio di Stato n. 2712/2022

Con la sentenza in commento, il Consiglio di Stato, Sez. V, si è soffermato sui principi interpretativi in ordine alla legittimità di un provvedimento dell’Autorità Portuale di Gioia Tauro, con il quale era stata rigettata la richiesta di concessione demaniale marittima nel porto di Taureana di Palmi, allo scopo di realizzare una banchina per l’ormeggio di imbarcazioni ed un fabbricato di servizio con ufficio e servizi igienici, in virtù di una informativa interdittiva antimafia adottata della competente Prefettura.

Di dott.ssa Flavia Rossi


Il principio affermato in giudizio


Il Consiglio di Stato in s.g., con la sentenza in commento (Sez. V, n. 2712/2022), è tornato a pronunciarsi sulla natura e sulla funzione dell’interdittiva antimafia, affermando che la verifica della legittimità dell’informativa deve essere effettuata sulla base di una valutazione unitaria degli elementi e dei fatti che, visti nel loro complesso, possono costituire un’ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo mafioso sulla base della regola causale del “più probabile che non”, integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (quale è quello mafioso), e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio.


Il contenuto della Sentenza n. 2712/2022


Nella sentenza in commento, il Consiglio di Stato è stato chiamato a pronunciarsi su una sentenza del Tar Calabria, avente ad oggetto l’annullamento del diniego di concessione demaniale marittima, adottato dall’Autorità Portuale di Gioia Tauro, sul presupposto dell’informativa interdittiva antimafia.

In dettaglio, la società ricorrente ha ritenuto illegittimo il provvedimento prefettizio, e conseguentemente il diniego di concessione, in quanto fondato sulla sussistenza di rapporti di parentela del responsabile della società ricorrente, con soggetti ritenuti affiliati alla ‘ndrangheta (gravati da precedenti penali, ovvero assoggettati a misure di prevenzione), nonché sulla base di sporadiche frequentazioni che – nella prospettazione attorea – non potevano essere ritenuti sufficienti a suffragare la tesi prefettizia di una comprovata, quanto intensa, permeabilità mafiosa.

Nella pronuncia in esame, il Consiglio di Stato, ponendosi nel solco tracciato da giurisprudenza amministrativa costante, ha richiamato alcuni principi consolidati in materia di interdittiva antimafia, allargando le maglie del giudizio probabilistico della Prefettura, ai fini dell’adozione dell’informativa antimafia.

In primo luogo, ad avviso del Collegio, in ragione della sua natura cautelare e della funzione di massima anticipazione della soglia di prevenzione che intende perseguire, l’interdittiva antimafia non richiede la prova di un fatto, ma solo la presenza di una serie di indizi in base ai quali non sia illogico o inattendibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un condizionamento da parte di queste.

Pertanto, ai fini dell’adozione dell’interdittiva occorre, per un verso, provare soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; per altro verso, detti elementi vanno considerati in modo unitario, sicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri (Cfr. Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343).

Ne consegue che, nell’adottare l’interdittiva antimafia, non è necessario che il Prefetto effettui la propria valutazione su specifici elementi, essendo sufficiente la sussistenza di un mero quadro indiziario, eventualmente sindacabile solo alla stregua dei canoni della non manifesta infondatezza, della illogicità, incoerenza o inattendibilità (Cfr. Cons. giust. amm. Sicilia, 12/01/2017, n. 19).

Sotto altro profilo, il Collegio, con la pronuncia in commento, evidenzia che l’interdittiva antimafia può legittimamente fondarsi anche su fatti risalenti nel tempo, purché dall’analisi del complesso delle vicende esaminate emerga, comunque, un quadro indiziario idoneo a giustificare il necessario giudizio di attualità e di concretezza del pericolo di infiltrazione mafiosa nella gestione dell’attività di impresa (cfr., T.A.R. per la Campania, Napoli, sez. I, 7.01.2019, n.73; Cons. Stato, sez. III, 2 gennaio 2020, n. 2).

In tale ottica si è pertanto precisato che il mero decorso del tempo è in sé un elemento neutro, che non smentisce da solo la persistenza di legami, vincoli e sodalizi e, comunque, non dimostra da solo l’interruzione di questi, se non corroborato da ulteriori e convincenti elementi indiziari.

Infine, a tenere legati insieme tutti questi elementi, sulla base dei quali valutare il rischio di inquinamento mafioso, è il criterio del “più probabile che non”, per cui gli elementi posti a base dell’informativa antimafia possono essere anche non penalmente rilevanti, o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali o possono anche essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione.

In applicazione del richiamato principio, affermato ripetutamente dalla Sezione III del Consiglio di Stato (Cfr., ex multis, 30 giugno 2020, n. 4168; 325 giugno 2020, n. 4091), la verifica sulla legittimità dell’informativa deve essere effettuata sulla base di una valutazione unitaria di elementi e fatti che, considerati nel loro complesso, possono costituire un’ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità mafiosa.

Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” è la minore forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché risulta sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero la c.d. probabilità cruciale (Cfr. Cons. St., III, 26 settembre 2017, n. 4483).

Ne consegue che, ai fini dell’adozione dell’informativa, non è chiesto alla Prefettura di pervenire a un grado di convincimento che resista ad ogni ragionevole dubbio, essendo sufficiente l’essere ragionevolmente persuasi da situazioni meramente indiziarie (quali, nel caso di specie, la sussistenza di provvedimenti sfavorevoli del giudice penale, ovvero la presenza di sentenze che, seppur di proscioglimento o di assoluzione, contengano valutazioni del giudice su fatti sintomatici della contaminazione mafiosa, l’esistenza di rapporti di parentela, ovvero di contatto, frequentazione, conoscenza, colleganza o amicizia, ecc..), da valutare nel loro complesso e tenute insieme alla stregua del criterio probabilistico del “più probabile che non”, non rilevando neanche il decorso di un considerevole lasso di tempo.

Sulla scorta di queste considerazioni, il Consiglio di Stato, nella vicenda in esame, ribadendo e precisando nel contenuto i principi espressi da giurisprudenza amministrativa costante, ha ritenuto legittimo il giudizio prognostico posto alla base dell’informativa antimafia gravata e, per l’effetto, ha confermato la sentenza di prime cure.


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