Silenzio-assenso: perfezionamento del titolo abilitativo anche in presenza di domande non conformi alla legge.

Il Consiglio di Stato, con la Sentenza n. 2661/2023, ha sancito importanti principi in materia di silenzio-assenso nell’ambito del consolidamento dei titoli abilitativi, osservando come solamente il rimedio dell’autotutela (ex art. 21-nonies, L. 241/90) possa dare all’amministrazione la possibilità di annullare i titoli formatisi con il decorso del tempo, seppur in difformità alle prescrizioni di legge.

di Avv. Manuel Costa

La vicenda fattuale


La vicenda trae origine nel lontano luglio del 2003, periodo nel quale gli appellanti avevano ottenuto il permesso di costruire per la realizzazione di opere di risanamento conservativo.

In particolare, dopo la concessione del titolo edilizio – si evince dalla lettura della Sentenza, nell’ambito della ricostruzione fattuale – il Comune aveva eseguito il relativo sopralluogo ed aveva accertato l’intervenuta demolizione e ricostruzione del fabbricato, ordinando la sospensione del lavori con apposito provvedimento del marzo 2004.

Sennonché, gli appellanti, nel successivo novembre 2004, depositavano una DIA in variante rispetto al titolo precedentemente ottenuto, finalizzata:

– alla demolizione e ricostruzione della muratura perimetrale;

– alla realizzazione di una rampa di accesso;

– al cambio di destinazione d’uso dell’immobile, rispettivamente da deposito ad autorimessa.

Pertanto, in seguito ad ulteriore sopralluogo, l’amministrazione comunale aveva riscontrato l’avvenuta esecuzione di una buona parte delle succitate opere comunicate in variante tramite apposita DIA (ovverosia la rampa di accesso) e, per l’effetto, aveva dapprima ordinato la sospensione dei lavori per verificare la conformità urbanistica ed edilizia delle opere e, successivamente, aveva comunicato il diniego al rilascio del titolo abilitativo.

Tale diniego, in sostanza, fondava le proprie ragioni sui seguenti rilievi:

  1. le opere eseguite contrastavano con quanto consentito dalle NTA del Piano particolareggiato del Parco Locale di Interesse Sovracomunale (PLIS), il quale ­ammetteva i soli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo;
  2. il cambio di destinazione d’uso in contrasto con le prescrizioni generali del medesimo Piano particolareggiato, nella parte in cui vietavano “la realizzazione di box privati, esclusi quelli al piano terreno di edifici esistenti ovvero nel sottosuolo, entro il limite dei muri perimetrali”.

Gli appellanti, dunque, proponevano ricorso in primo grado di giudizio dinanzi al TAR della Lombardia (sede di Milano), il quale respingeva le relative doglianze, osservando – inter alia – che:

  • l’istanza non poteva qualificarsi come DIA in variante al p.d.c. in quanto, trattandosi di variazioni essenziali, si sarebbe dovuto applicare il regime giuridico previsto per un nuovo titolo e, pertanto, necessariamente tale istanza doveva presentarsi «prima della realizzazione dei lavori oggetto delle stesse, data l’incisività delle opere da eseguire»;
  • le opere di demolizione e ricostruzione realizzate rientravano nel novero delle c.d. «varianti essenziali» e, inoltre, l’istanza era inoltrata dopo l’esecuzione di parte delle opere;
  • i Sig.ri […] avevano realizzato opere di demolizione e ricostruzione senza un valido titolo a supporto e poi avevano presentato una DIA «in variante» all’originario permesso di costruire, attinente, in realtà, ad opere già eseguite e senza alcuna istanza di sanatoria per le stesse;
  • l’omessa comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza non rendeva illegittimo l’operato dell’Amministrazione che aveva, comunque, rappresentato più volte i profili di criticità dell’intervento;
  • in ogni caso, l’interlocuzione procedimentale non avrebbe determinato un diverso esito della decisione risultando legittime le ragioni a fondamento del diniego;
  • l’ordine di demolizione non doveva essere preceduto da comunicazione di avvio del procedimento, né sorretto da una specifica motivazione in ordine alle ragioni di interesse pubblico alla demolizione delle opere, né, in ultimo, poteva ritenersi generico”.

Avverso la Sentenza di cui sopra, è stato proposto appello dinanzi al Consiglio di Stato il quale, come si vedrà nel successivo paragrafo, ha accolto le doglianze ivi formulate, riformando la sentenza di primo grado emessa dal TAR Lombardia.


Il giudicato del Consiglio di Stato


Il Consiglio di Stato, con la Sentenza in oggetto, ha accolto le argomentazioni formulate dagli appellanti, rilevando e statuendo, sostanzialmente, quanto segue.

Innanzitutto è stata accolta la doglianza secondo la quale il giudice di primo grado abbia fondato la propria decisione su una ragione ostativa diversa e ulteriore rispetto a quella addotta dall’amministrazione comunale nel proprio provvedimento (ovverosia la qualificazione della variante), atteso che tale decisione comunale traeva origine unicamente sulla ritenuta non conformità delle opere alle regole di cui alle NTA del piano particolareggiato del PLIS, nonché del cambio di destinazione d’uso alle prescrizioni generali delle NTA.

Alcun rilevo, dunque, veniva sollevato dall’amministrazione comunale in ordine alla qualificazione della variante ed alla necessità di ricorrere ad un titolo diverso dalla DIA ex art. 22, co. 2, del DPR n. 380/2001.

Sotto tale profilo, dunque, il Supremo Consesso Amministrativo rileva che “La statuizione del T.A.R. esclude, quindi, la legittimità del provvedimento sulla base di rationes decidendi che non trovano fondamento nell’impianto motivazionale dell’atto amministrativo, incorrendo, in tal modo, “nel vizio di ultrapetizione, oltre che nella violazione del principio di separazione dei poteri ex art. 34, comma 2, c.p.a.: “sotto il primo profilo, la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato emerge, altresì, qualora, ammettendo una integrazione postuma della motivazione sottesa al provvedimento, il giudice statuisca su una fattispecie oggettivamente diversa da quella prospettata nel provvedimento gravato, con evidente lesione dei diritti di difesa della parte ricorrente (Consiglio di Stato, sez. VI, 2 gennaio 2020, n. 28)”; “sotto il secondo profilo, il giudice, qualora abbia formulato argomentazioni a sostegno del provvedimento impugnato che ne alterano l’impianto motivazionale, emette una pronuncia su poteri non ancora esercitati, in violazione del disposto di cui all’art. 34, comma 2, c.p.a., venendo esaminata la legittimità di nuove questioni a sostegno della decisione censurata, non previamente decise dal competente organo amministrativo” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 6 settembre 2021, n. 6218).

Ulteriormente, il Collegio ha rilevato la tardività del diniego comunale il quale interviene dopo due anni dalla presentazione della DIA senza, inoltre, evidenziare ulteriori carenze.

Ad avviso del Consiglio di Stato, invero, “l’Amministrazione avrebbe dovuto agire con le modalità e le garanzie previste dalla previsione di cui all’art. 21-nonies della L. n. 241/1990 al fine di rimuovere gli effetti di una DIA medio tempore consolidatisi proprio per l’inerzia del Comune. Tale circostanza non è meramente formale ma, al contrario, implica l’operatività delle regole di garanzia invocate dagli appellanti e l’obbligo per l’Amministrazione di calibrare la motivazione sulle ragioni di interesse pubblico alla rimozione del titolo. Garanzie e approfondimenti della decisione che sono omesse e difettano nel caso di specie. […] costituisce jus receptum il principio per cui «affinché il potere di intervento “tardivo” sulla DIA. possa dirsi legittimamente esercitato, è indispensabile che, ai sensi dell’art. 21 nonies l. n. 241 del 1990, l’autorità amministrativa invii all’interessato la comunicazione di avvio del procedimento, che l’atto di autotutela intervenga tempestivamente e che in esso si dia conto delle prevalenti ragioni di interesse pubblico concrete e attuali, diverse da quelle al mero ripristino della legalità violata, che depongono per la sua adozione, tenendo in considerazione gli interessi dei destinatari e dei controinteressati» (Consiglio di Stato, sez. VI, 30 ottobre 2017, n. 5018)”.

Ed ancora, il Collegio giudicante sostiene che l’attivazione del procedimento di cui all’art. 21-nonies della L. n. 241/90 risulta essere necessario in virtù dell’asserita non completezza e non veridicità della DIA presentata dagli appellanti.

Elementi, questi, non contestati dall’amministrazione comunale nel provvedimento impugnato e, comunque, non idonei ad escludere l’obbligo dell’avvio del cennato procedimento atteso che, secondo la consolidata giurisprudenza amministrativa, “il dispositivo tecnico denominato «silenzio-assenso» risponde ad una valutazione legale tipica in forza della quale l’inerzia “equivale” a provvedimento di accoglimento. Tale equivalenza non significa altro che gli effetti promananti dalla fattispecie sono sottoposti al medesimo regime dell’atto amministrativo. Con il corollario che, ove sussistono i requisiti di formazione del silenzio-assenso, il titolo abilitativo può perfezionarsi anche con riguardo ad una domanda non conforme a legge. Reputare, invece, che la fattispecie sia produttiva di effetti soltanto ove corrispondente alla disciplina sostanziale, significherebbe sottrarre i titoli così formatisi alla disciplina della annullabilità: tale trattamento differenziato […] opererebbe (in modo del tutto eventuale) in dipendenza del comportamento attivo o inerte della p.a. Inoltre, l’impostazione di “convertire” i requisiti di validità della fattispecie “silenziosa” in altrettanti elementi costitutivi necessari al suo perfezionamento, vanificherebbe in radice le finalità di semplificazione dell’istituto: nessun vantaggio, infatti, avrebbe l’operatore se l’amministrazione potesse, senza oneri e vincoli procedimentali, in qualunque tempo disconoscere gli effetti della domanda. L’obiettivo di semplificazione perseguito dal legislatore – rendere più spediti i rapporti tra amministrazione e cittadini, senza sottrarre l’attività al controllo dell’amministrazione – viene realizzato stabilendo che il potere (primario) di provvedere viene meno con il decorso del termine procedimentale, residuando successivamente la solo possibilità di intervenire in autotutela sull’assetto di interessi formatosi “silenziosamente”. L’ammissibilità di un provvedimento di diniego tardivo si porrebbe in contrasto con il principio di «collaborazione e buona fede» (e, quindi, di tutela del legittimo affidamento) cui sono informate le relazioni tra i cittadini e l’Amministrazione (ai sensi dell’art. 1, comma 2-bis, della L. n. n. 241 del 1990 che codifica principio già immanente nell’ordinamento) (Consiglio di Stato, Sez. VI, 8 luglio 2022, n. 5746)”.


I principi affermati in sentenza


1 – Si versa nel vizio di “ultrapetizione” nelle fattispecie in cui, dalla violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, scaturisce un’integrazione postuma della motivazione sottesa al provvedimento, portando il giudice a statuire su una fattispecie oggettivamente diversa da quella prospettata nel provvedimento gravato;

2 – si versa nella violazione del principio di “separazione dei poteri” ogni qualvolta il giudice, nelle ipotesi in cui abbia formulato argomentazioni a sostegno del provvedimento impugnato che ne alterano l’impianto motivazionale, emetta una pronuncia su poteri non ancora esercitati dall’amministrazione;

3 – il diniego comunale, intervenuto dopo due anni, è tardivo (e, dunque, illegittimo). L’Amministrazione, invero, avrebbe dovuto agire con le modalità e le garanzie previste dalla previsione di cui all’art. 21-nonies della L. n. 241/1990 al fine di rimuovere gli effetti di una DIA medio tempore consolidatisi proprio per l’inerzia del Comune. Altresì, avrebbe dovuto inviare all’interessato la comunicazione di avvio del procedimento e, nel caso, emanare l’atto di autotutela tempestivamente, dando conto delle prevalenti ragioni di interesse pubblico concrete e attuali (diverse da quelle al mero ripristino della legalità violata) che depongono per la relativa adozione, tenendo in considerazione gli interessi dei destinatari e dei controinteressati;

4 – l’istituto del “silenzio-assenso” risponde ad una valutazione legale tipica in forza della quale l’inerzia equivale a provvedimento di accoglimento. Pertanto, gli effetti promananti da tale equivalenza sono sottoposti al medesimo regime dell’atto amministrativo. Conseguentemente, ove sussistono i requisiti di formazione del silenzio-assenso, il titolo abilitativo può perfezionarsi anche con riguardo ad una domanda non conforme a legge;

5 – L’obiettivo di semplificazione perseguito dal legislatore (consistente nel rendere più spediti i rapporti tra amministrazione e cittadino) trova realizzazione nel momento in cui è consentita la possibilità all’amministrazione di non utilizzare il peculiare “potere di provvedere” in virtù del decorso del tempo. Ne residua, pertanto, in capo all’amministrazione, la sola possibilità di intervenire successivamente tramite autotutela sull’assetto degli interessi formatosi “silenziosamente”.


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